Sempre più casi di frode scientifica vengono smascherati pubblicamente sui blog o su Twitter. Caccia alle streghe o inizio di una rivoluzione?

(foto: Getty Images)

Per un po’, alla dottoressa Bengü Sezen è andato tutto a gonfie vele. Brillante cervello in fuga dalla Turchia, dal 2000 al 2005 la Sezen stava facendo il dottorato di ricerca al dipartimento di chimica della Columbia University, all’interno di uno dei laboratori più prestigiosi degli Stati Uniti. Si distinse subito per il suo talento. Pubblicò numerosi articoli e divenne la pupilla del suo supervisore, il professor Dalibor Sames. Sul sito del suo gruppo c’era una sua foto: una ragazza sorridente dagli occhi vispi, in camice bianco, intenta a lavorare sul bancone di un laboratorio.

Ma quella di Bengü Sezen non è l’idilliaca storia di una ragazza di talento che ce l’ha fatta. Oddio, il talento c’era: ma non nellachimica. Un’indagine condotta dalla Columbia University e dall’Ufficio per l’Integrità nella Ricerca degli Stati Uniti ha infatti accertato che la dottoressa Sezen è stata una delle più clamorose truffatrici in ambito scientifico degli ultimi anni. Quasi nessuno dei suoi esperimenti è stato confermato. Non ha sintetizzato nessuna delle molecole che affermava di aver sintetizzato. Ha falsificato tonnellate di dati, usando a volte addirittura il bianchetto per manipolare le analisi chimiche prima di pubblicarle. È arrivata pure a inventarsi persone e interi dipartimenti che “garantivano” di poter ripetere e confermare i suoi risultati. La Columbia University è stata costretta ad annullarle il dottorato, e il gruppo di ricerca in cui lavorava ha dovuto ritirare pressochè tutti gli articoli a cui aveva collaborato.

Il caso di Bengü Sezen non è certo l’unico, anche se particolarmente grave. Lo stesso Ufficio per l’Integrità nella Ricerca riporta numerosi casi analoghi ogni anno solo negli Stati Uniti.  Ma si distingue per un aspetto. Mentre di solito situazioni del genere vengono investigate privatamente, cercando di fare meno rumore possibile, il caso Sezen è diventato dominio pubblico. Grazie a un blog:   chiamato –appropriatamente-ChemBarkChemBark è il blog di Paul Bracher, ricercatore in chimica alla Saint Louis University. Su ChemBark, Bracher ha seguito il caso Sezen dalla fine del 2005 a oggi. E quel che è più importante, Bracher ha attivamente partecipato al caso, ottenendo e pubblicando documenti sulle indagini della Columbia University tramite il Freedom of Information Act.

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In realtà i blog hanno seguito da molto tempo i casi di scientific misconduct, rompendo un tabù chiave dell’ambiente della ricerca. Se prima la parola d’ordine era “i panni sporchi si lavano in casa”, ora questi casi vengono discussi pubblicamente dalla comunità e resi noti. Dal 2010 per esempio l’eccellente Retraction Watch seguei casi in cui un articolo scientifico viene ritirato dalla pubblicazione – casi che spesso coinvolgono frodi. Finora però le indagini partivano da denunce interne, e i blogger arrivavano dopo, spesso (come nel caso di Retraction Watch) ad articoli già ritirati.

Ma il piccolo mondo dei chimici blogger non sta solo pubblicando informazioni più o meno riservate su indagini già in corso: ora scopre e pubblica autonomamente casi di pessima condotta scientifica. Solo ad agosto, due ricercatori sono stati denunciati quasi contemporaneamente. In un caso, un altro blog, Chemistry Blog,  ha mostrato come le immagini di un lavoro dinanotecnologie siano state modificate con Photoshop. E sempreChemBark, invece, ha scovato una gaffe che sarebbe assolutamente comica se non fosse inquietante. Spulciando i cosiddetti “materiali supplementari” – informazioni tecniche aggiuntive che a volte accompagnano gli articoli scientifici, si è accorto che uno degli autori non ha tolto un commento dalla versione finale:

Emma, per favore, inserisci qui i dati NMR! E per questo composto, inventati un’ analisi…”

Esattamente: “inventati” (just make up nell’originale). Come se il supervisore della ricerca chiedesse all’autrice di inventarsi i dati. In entrambi i casi, dopo l’allarme lanciato dai blog, gli articoli sono stati ritirati o sospesi dalla pubblicazione e sono partite indagini.

È una cosa buona? Ci sono polemiche in corso. Su TwitterChemBark è stato accusato esplicitamente di caccia alle streghe. E il rischio di ricercatori che attaccano i loro colleghi con torce e forconi non è remoto. In un caso la madre di una ricercatrice accusata di frode ha scritto a un altro blogger, sconvolta per i commenti violenti su Internet contro la figlia, e preoccupata che accuse infondate possano rovinarle la vita. Di norma infatti i casi di scientific misconduct vengono trattati dalle istituzioni accademiche con grande rigore, ma anche molta cautela: in gioco c’è la reputazione e la carriera di una persona. Persino un caso scandaloso come quello della Sezen ha richiesto anni di indagini. Gettare ricercatori direttamente alla gogna pubblica rischia di essere superficiale e controproducente.

Prendiamo la citazione sull’analisi chimica inventata di cui sopra. I ricercatori coinvolti non sono di madrelingua inglese: anche se improbabile, non è impossibile che il capo intendesse, con “make up”, “esegui” invece di “inventa”. Senza analizzare i quaderni di laboratorio e vedere se questi dati esistono è impossibile chiarire la verità.

In generale però esporre e discutere pubblicamente la ricerca scientifica è ormai inevitabile. È in atto una transizione, come riporta Naturetra revisione pre-pubblicazione (la famosa peer review) e revisione post-pubblicazione, in cui gli scienziati discutono e commentano online i risultati dei loro colleghi. Non è un cambiamento ovvio. I tentativi di alcune riviste scientifiche di abilitare i commenti sugli articoli pubblicati hanno riscontrato scarsissimo successo. Ma le cose potrebbero cambiare ora chePubMed, il database online di articoli scientifici più usato nel mondo, ha aperto un sistema di commenti a tutti gli articoli che ospita. I ricercatori però sembrano aver trovato la loro strada sui comuni social network –Twitter sembra uno dei favoriti. E ci sono gradi di resistenza diversi nelle diverse discipline. I fisici per esempio sono abituati da vent’anni a pubblicare, prima che sulle riviste, sull’archivio online arXiv, e a discutere i meriti e demeriti delle ricerche apertamente. Un equivalente per le scienze biologiche, biorXiv, ha aperto invece solo poche settimane fa.

Tutta la trasparenza del mondo serve a poco però se non cambia il sistema di incentivi nella ricerca. Se tutto quello che conta non è tanto la qualità della ricerca, quanto la sua quantità e la suapopolarità, ci sarà sempre qualcuno che cercherà di fregare il sistema per ottenere più articoli sul suo curriculum – che importa se fatti con Photoshop e gomma da cancellare, invece che con provette e cellule? Al punto che in Cina ci sono interi business che vivono creando articoli scientifici falsi. Anche in questo caso però risolvere il problema passa da una discussione franca e aperta. Paul Bracher ha dichiarato: “È ora che gli editor delle riviste parlino, è ora che le università e i governi pubblichino i dati sulle loro indagini, è ora che ci siano incontri sul problema della manipolazione dei dati; è ora di tirare fuori la testa dalla sabbia.” Difficile dargli torto.

 

Fonte Articolo: http://www.wired.it